Nell’ambito della Tavola rotonda sulla “Amministrazione di sostegno- contratti bancari e servizi postali”, tenutasi presso l’aula della Corte di Assise d’Appello il 13 e 14 ottobre, mi è stata riservata la lusinghiera opportunità di disquisire sui vincoli e deroghe dell’articolo 372 del codice civile in materia di forme d’investimento.
Avevo avuto modo di assaggiare personalmente il sapore amaro di una richiesta al Giudice Tutelare, per mio figlio minorenne, rigettata in toto. Legittimato ad incassare in sua vece un importo, ma non ad impiegarlo come venticinque anni di esperienza nella gestione del risparmio mi suggerivano. Le limitazioni che l’articolo 372 impone e che avevano indotto il Giudice Tutelare ad autorizzarmi esclusivamente all’acquisto di Titoli dello Stato, cozzavano con le più elementari regole di diversificazione che avevo cercato di trasmettere ad ogni mio cliente. Certo oggi è facile essere critici nei confronti del debito pubblico italiano. Eravamo però nel 2008, lontani ancora dai primi scricchiolii della Grecia.
Tuttavia perché avere come debitore un unico interlocutore? Perchè sclerotizzarsi in un unico asset per un bambino che ha un orizzonte temporale di almeno dieci anni? Perché non sfruttare tutte le opportunità che si presentano al di fuori dei nostri confini? Ritengo che il legislatore, nel 1942, non riuscisse ad ipotizzare la globalizzazione finanziaria e la circolazione dei capitali. Capisco. Ciò però non dovrebbe, a mio avviso, esimere il Giudice Tutelare dalla responsabilità di valutare che un investimento, con un rendimento nominale (pur sempre positivo) inferiore all’inflazione, produce un rendimento reale negativo.
L’unica certezza è quella di depauperare negli anni il patrimonio, di perdere potere di acquisto. Altro che sicurezza e garanzie!
Grazie ad un Giudice Tutelare molto disponibile sul piano umano, oltre che figura coscienziosa e scrupolosa, mi fu possibile affrontare, nel corso di un incontro da me richiesto, sia il principio appena menzionato, che il tema delle gestioni in fondi comuni.
Sebbene in Italia risultino spesso inefficaci, in quanto in bassissima percentuale riescono a sovraperformare il benchmark, non è esclusa la possibilità di reperire anche sul mercato internazionale degli ottimi strumenti. Brillanti per l’eccellenza della gestione e per i loro rendimenti rapportati a volatilità e rischio, come testimoniato da adeguata documentazione presentata. Bisogna scovarli ed andarseli a pigliare. Cosa non facile, certamente.
Il mercato italiano è prigioniero di un fantasma che si chiama “conflitto di interesse” e che non consente facilmente all’investitore di trovarsi di fronte ad un interlocutore libero di scegliere ciò che di meglio offre il mercato. E’ necessario rivolgersi a chi non è condizionato dalla vendita dei prodotti di bandiera e non è vittima dei budget di scuderia.
Un altro argomento trattato, già introdotto nella giornata precedente dal giudice Sansone relativamente al conflitto di interesse, è stato quello delle obbligazioni bancarie. Fenomeno tipicamente italiano, almeno a giudicare da un corposo studio redatto dalla Consob.
Infatti l’organo di sorveglianza ha ritenuto di dover intervenire per cercar di individuare le ragioni per le quali questo strumento risulta collocato nel nostro Paese in modo così massiccio: ben cento volte più che in Inghilterra e dieci volte più che in Spagna ed in Francia. Nel quaderno numero 67 del luglio 2010 la Consob specifica che solo il 9% delle obbligazioni in circolazione risultano liquide in quanto quotate in un mercato regolamentato. Il loro rating inoltre risulta generalmente inferiore a quello di un titolo dello Stato. A fronte di due minus di tale peso sembra ovvio che il risparmiatore dovrebbe pretendere un rendimento più elevato rispetto ad un titolo di Stato equipollente.
Il paradosso purtroppo è che quasi sempre avviene esattamente il contrario. La Consob attribuisce le ragioni di tale irrazionalità certamente a difficoltà cognitive, che non consentono la chiara comprensione del rapporto rischio rendimento. Un peso ancor maggiore, quale causa di tale comportamento autolesionista, lo si attribuisce al principio della “familiarità”; per cui si tende a recepire come buono lo strumento offerto da un soggetto noto.
Resta da chiedersi se chi colloca questi strumenti non conosca affatto questo documento, peccando in termini di professionalità, o, semplicemente, pur essendone a conoscenza, lo ignori bellamente calpestando l’interesse del cliente allo scopo di privilegiare quello proprio. L’auspicio è che perlomeno da figure autorevoli quali i Giudici Tutelari inizi un’emancipazione di cui poi a cascata beneficerà tutto il mercato.
Dott. Furio Impellizzeri
Vicepresidente Copernico sim