Stefano Rossi, avvocato in Bergamo e dottorando di ricerca in Diritto pubblico e tributario nella dimensione europea presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Bergamo. È altresì autore di numerosi saggi e pubblicazioni in materia di diritto costituzionale e civile e si occupa in particolare dei temi legati al diritto alla salute e al biodiritto.
QUI IL VIDEO DELL’INTERVENTO – (disponibile dal 15.4.2014)
Le parole miti della Costituzione e l’amministrazione di sostegno
1. Il linguaggio del diritto e l’intreccio della vita
Il diritto è complessità e cultura, nella misura in cui se «i caratteri incontroversi del diritto sono la umanità e la socialità; il carattere emergente della realtà umana (…) è la spiritualità; e poiché la spiritualità nella dimensione sociale costituisce la cultura, ne segue che il diritto, in quanto fenomeno umano e sociale, non può non appartenere alla cultura» (Falzea 1988, 4).
Per tale ragione, anche nel tempo presente, come in ogni altra epoca, il centro di gravità dello sviluppo del diritto non si trova nella legislazione, nè nella scienza del diritto, nè nella giurisprudenza, ma nella società stessa e nelle sue espressioni. La vita del diritto si rappresenta come un grande contenitore nel quale riversare tutte le semantiche che il linguaggio del tempo sedimenta, allargando e restringendo, enfatizzando o dissolvendo caratteri particolari dell’esperienza umana.
Se il diritto è quel sapere che, più di ogni altro, «fa cose con le parole» (Resta 2008, XI), allora è nelle parole che si possono delineare le traiettorie dei principi e l’affermazione di valori.
Persona, eguaglianza, pari dignità, libertà sono alcune delle parole chiave della Costituzione, espressioni di quella semantica influente che viene a garantire ed arricchire il senso del diritto e dei diritti. Non si tratta solo di concetti, espressione di principi, il linguaggio usato è invero quello della vita con cui il diritto descrive se stesso: è infatti nel gioco dell’esistenza quotidiana che l’intreccio diventa visibile, quando si deve decidere o dar ordine alle questioni sempre nuove e sempre eguali della vita.
In questo senso il diritto diviene un grande campo di osservazione della complessità del vivente: per cui quanto più lo si vuole ridurre a dimensione unitaria e monologante (riducendolo ad istituti ed istituzioni), tanto più ci si rende conto delle tante pratiche sociali che esso racchiude e rappresenta.
È nel prisma del diritto che si riverbera il sociale, riflettendosi in una pluralità di esperienze in cerca di legittimazione e regolazione. Il linguaggio del diritto non potrà (nè dovrà) pertanto essere solo quello del divieto o soltanto quello dell’autorizzazione, essendo comprensivo di entrambi i profili. Così nelle scelte fondamentali dove la vita ritorna nella sua insopprimibilità, con la sua libertà, il diritto non potrà escludere possibilità, che rappresentano l’eccedenza che è propria dell’esistenza.
È infatti attraverso la duttilità del diritto – come disciplinamento del pensiero possibilista e conduttore del pluralismo sociale – ovvero nel riconoscimento delle personalissime e singolari situazioni esistenziali delle persone, che i deboli oltrepassano la soglia, escono dall’ombra, ricevendo risposta dall’ordinamento alle loro invocazioni.
Ciò presuppone però un diritto prospettico che, «uniforme nei suoi enunciati, anche se cangiante nell’interpretazione e nella concreta applicazione, st[ia] al centro delle correnti evolutive che fanno nascere, maturare e tramontare atteggiamenti e credenze, e mentre anticipa e trascina i più lenti e vischiosi vortici del fiume, è anticipato e trascinato dal flusso del più vivace costume» (Zatti 2002, 11).
2. Dalla l. 180/1978 alla l. 6/2004 nel segno della Costituzione
La Costituzione s’invera, diviene legge di ‘prossimità’, quando i suoi principi, le sue disposizioni e norme si fanno strumento di riaffermazione del ruolo centrale della persona, come struttura di valore, essere assiologico concreto a cui viene fornito riconoscimento e tutela anzitutto nella sua dimensione vitale (Mengoni 1982, 1135). Ciò è avvenuto, nell’esperienza storica del secolo scorso, attraverso un processo non privo di contraddizioni, che, in un circuito virtuoso di cambiamenti socio-politici ed esigenze di riforma, ha determinato una rivoluzione nei rapporti sociali tradizionali, che si è riflessa nell’evoluzione legislativa nel campo del lavoro, della famiglia, dei rapporti di genere e delle politiche del welfare. Anche la cittadella asettica e autoritaria del codice civile è stata investita dal vento del cambiamento ed è «come se un cavallo di ignota provenienza vi fosse stato ammesso e, a un certo punto, la persona umana ne fosse uscita nottetempo, con le sue varie prerogative e aspettative, invadendo poi tutti i luoghi all’intorno, penetrando entro ogni libro del codice: sino a contagiare la lettura di una norma su due, rinverdendo o rivoluzionando tanti istituti, di lì in avanti, lasciando ovunque tracce del proprio passaggio» (Cendon 2007, 284).
Tale trasformazione ha introdotto nell’ordinaria gestione dell’applicazione la legge il problema di come porsi e utilizzare i principi costituzionali, i valori loro sottesi, le tecniche di bilanciamento, intrecciando i ruoli del legislatore e del giudice, in un percorso riformatore che si è posto al centro di una rete di flussi interpretativi e decisionali, selezionando e tessendo in una trama cangiante i materiali giuridici caratterizzanti relazioni significative.
In questo quadro la riaffermazione della centralità della persona ha costretto ad un ripensamento anche delle strutture e degli istituti normativi volti a tutelare (invece che contenere e/o segregare in modo autoritario) i soggetti ‘vulnerabili’ (in primis i malati psichici): in tal senso hanno lasciato un segno indelebile le battaglie e le riflessioni di Franco Basaglia (Pescara 1997, 756), a cui si deve la legge n. 180/1978, che, nell’abrogare tra l’altro l’automatismo del ricovero nelle strutture manicomiali prescritto dall’art. 420 c.c., ha restituito, almeno formalmente, il diritto alla cittadinanza a chi l’aveva perduto, consentendo alle varie forme di fragilità umana di essere reinserite nel contesto civile e sociale. Con la svolta del 1978, si è detto a ragione, «la follia [è] ritornata nel mondo nel momento in cui, svuotata di senso l’autorità, non più dato indiscutibile, è venuta meno la categoria che, in mancanza di una spiegazione univocamente appagante, costituiva l’unico supporto giustificativo della segregazione» (Castronovo 1980, 16).
Tuttavia, soppressi i manicomi, la legge n. 180/1978 non è riuscita a liberare i malati psichici anche dall’altra prigione, quella legale caratterizzata dalla deprivazione di diritti e libertà, in cui continuavano a rimanere astretti a causa dell’immutato regime delle incapacità.
È in questo solco che si inserisce la riflessione interdisciplinare sviluppatasi nella seconda metà degli anni ’80 e che, nell’ottica di una rilettura della lettera del dettato codicistico alla luce dei principi costituzionali, si è proposta di riorientare teleologicamente gli istituti di protezione alle esigenze concrete dei soggetti deboli, ai loro bisogni, al rispetto della loro dignità in un’ottica di promozionalità dei diritti (Zatti 1988, 114).
Il frutto di questa lunga gestazione è l’istituto dell’amministrazione di sostegno, introdotto con la legge n. 6/2004 (modificando gli artt. 404 ss. c.c.), che si connota come nuova forma di protezione comprensiva e ‘morbida’ del soggetto debole, la quale, nel rifiutare la logica ghettizzante dell’infermità mentale tipica dell’interdizione, adatta gli strumenti giuridici alle (residue) capacità fisiche ed intellettuali, alle aspirazioni e ai bisogni concreti dell’amministrato nel contesto di un progetto di sostegno esistenziale in cui l’aspetto patrimoniale non appare più assorbente rispetto ai profili biografici e di strutturazione del Sè (Ruscello 2004, 153).
Se infatti l’interdizione e l’inabilitazione riguardano soltanto gli infermi di mente, limitandone a priori la capacità d’agire, al contrario, preso atto che la galassia antropologica dei soggetti deboli è vasta e ramificata, il nuovo istituto è stato pensato per venire incontro a chi si trovi in difficoltà nell’esercizio dei propri diritti, venendo ritagliato ‘su misura’, non soltanto nei confronti dei portatori di disturbi psichici, quindi, ma anche degli anziani della quarta età, handicappati sensoriali, alcolisti e tossicodipendenti che non siano nelle condizioni per l’inabilitazione, persone colpite da ictus cerebrale, malati terminali o, in casi particolari, extracomunitari in specifiche condizioni di difficoltà (Cendon 2005, 151 ss.).
Si profila dunque, attraverso tale istituto, una logica d’intervento ispirata ad un modello di mild law, la cui peculiarità è rappresentata dall’integrazione virtuosa tra i principi costituzionali (eguaglianza-dignità-libertà) che connotano lo statuto di ogni individuo, il coinvolgimento operativo di diversi attori sociali ed istituzionali, nonché la ‘responsabilizzazione’ dello stesso soggetto destinatario di queste nuove ed inclusive forme di tutela non passivizzanti, volte a mantenere il rapporto di integrazione tra la persona, la sua famiglia e l’ambiente di vita (Amato 2005, 265; Savorani 2006, 129).
L’attenzione del legislatore, quindi, si concentra sui bisogni concreti della persona non autosufficiente, al fine di rimuovere gli ostacoli che ne impediscono lo sviluppo sul piano esistenziale e l’effettività di esercizio dei diritti. In questo senso la ‘cura’ è assunta dall’ordinamento come ‘cifra’ dell’intervento di tutela della persona, come nuovo ‘diritto’ dell’individuo in difficoltà, senza che ciò si traduca in una ‘minorazione’ del soggetto debole. Il progetto di cura (o meglio del ‘prendersi cura’) ha infatti la funzione «di mettere l’altro nelle condizioni di provvedere da sé ai propri bisogni, rendendolo capace sia di azioni cognitive, come individuare e stabilire criteri di priorità, sia di azioni concrete per soddisfare bisogni e realizzare obiettivi» (Iori, Mortari 2005, 31).
La cura può essere considerata un aspetto fondamentale della condizione umana e dello stessa pensabilità delle relazioni sociali, laddove si prefigurano i rapporti, nell’ambito del contesto sociale, come connotati dall’interdipendenza tra i membri della comunità, i quali, nelle varie stagioni della vita, sviluppano la loro sfera di autonomia da uno stato di preesistente dipendenza, per poi assumere, a loro volta, il ruolo di ‘accudienti’ nei confronti dei loro simili (Tronto 2006, 118).
Questa prospettiva, intrisa di personalismo, sembra potersi riscoprire attraverso l’amministrazione di sostegno, che, valorizzando le risorse esistenziali della persona, consente di cercare un giusto equilibrio tra l’etica dei diritti, espressione del riconoscimento dell’ugual rispetto dovuto a ognuno e l’etica della responsabilità, fondata sulla comprensione dell’altro, da cui scaturisce l’empatia e la cura (Gilligan 1987, 166).
3. L’amministrazione di sostegno tra personalismo e dignità
Nell’attuale diritto «depatrimonializzato» (Perlingieri 1983, 1) il principio di solidarietà (art. 2 Cost.; artt. 24, 25, 26 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea) cambia radicalmente la prospettiva e mette al centro dell’ordinamento le ragioni della tutela del soggetto debole.
In questo contesto appare fuorviante continuare a parlare di interdetti, inabilitati o incapaci non dichiarati, per preferire a tali denominazioni – che hanno l’effetto principale in una più o meno accentuata «morte civile» del soggetto – quella di portatore di handicap o di disabile in genere.
Considerare il diritto dal basso (Cendon 2009), partendo dalla condizione concreta delle persone senza costringerle entro categorie astratte, offre l’occasione di chiamarle per nome, riconoscendo al contempo una protezione efficace non solo ai malati di mente, tradizionalmente presi in considerazione dalla normativa civilistica, ma a tutte le persone che siano in una situazione di debolezza: portatori di handicap, ma anche anziani, minori, tossicodipendenti, persone disagiate (Palazzo 2010, 162; Cendon-Rossi 2013).
In questa prospettiva si muove la disciplina dell’amministrazione di sostegno la cui finalità è quella di realizzare un equilibrio tra le opposte esigenze di libertà e di protezione della persona: assicurare cioè al soggetto fragile la libertà che è possibile e indispensabile, e – quanto alla protezione – dargli in più quella che è necessaria e limitare invece quella che è superflua, dannosa o ingiusta.
Il percorso culturalmente rivoluzionario di questa legge porta a sostituire finalmente la logica totalizzante del divieto e dell’annullamento, tipica del giudizio di incapacità di agire, presupposto dell’interdizione (e, in misura diversa dell’inabilitazione), con quella individualizzante e liberante, sempre relativa e umana, della possibilità di agire e del superamento dei suoi limiti.
Partadigmatica, in tal senso, appare la disposizione secondo cui il beneficiario «conserva la capacità di agire per tutti gli atti che non richiedono la rappresentanza esclusiva o l’assistenza necessaria dell’amministrazione di sostegno», fermo restando che, in ogni caso, egli «può compiere gli atti necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana» (art. 409 c.c.).
Nella medesima prospettiva occorre sottolineare inoltre il rilievo che la disciplina codicistica attribuisce, in ogni fase del procedimento di AdS, alle «richieste», ai «bisogni», alle «aspirazioni» del beneficiario, le quali devono esser tenute in debita considerazione dal giudice tutelare all’atto di assumere le decisioni in merito all’istituzione dell’amministrazione di sostegno (art. 407 c.c.), alla scelta dell’amministratore (art. 408 c.c.) nonché all’individuazione dei poteri che questi può esercitare in nome e per conto dell’amministrato (artt. 405 e 407 c.c.).
La centralità attribuita alle persone (e ai bisogni) nella loro integralità evidenzia l’intenzione degli ideatori della l. n. 6/2004 di suggellare a livello normativo «l’incomprimibilità della fascia esistenziale per qualunque tipo di persona», predisponendo – appunto – un «sostegno, una maniglia, un bastone che supplisca all’incapacità e renda possibili anche gli atti più complessi» (Cendon 1988, 36).
Ciò dimostra come al progressivo smantellamento della solidarietà organizzata, e più in generale dello Stato sociale, non corrisponde – almeno in Europa, e in particolare in Italia – un parallelo affievolimento dello spirito popolare di fratellanza, e in particolare della fratellanza della povera gente (Busnelli 2013, 413). Sopravvive, e sembra diffondersi, altresì una solidarietà che non ha bisogno della «imposizione di veri e propri obblighi giuridici nei confronti dei consociati fra di loro» e che d’altro canto non è necessariamente «confinata nell’area della liberalità»: è la solidarietà che si esprime come «dovere morale di ciascuno» (Pizzolato 2001, 762; Rossi-Bonomi 207, 86).
Tale dovere – che si esprime nell’accompagnare senza costringere, nell’indirizzare senza scegliere per l’altro – trova concretezza nel progetto dell’amministrazione di sostegno, i cui protagonisti, seppur in un’ottica di sussidiarietà e di rispetto delle scelte individuali, non sono solo il beneficiario e l’amministratore di sostegno, ma tutti coloro che debbono o possono concorrere a formare la rete del sostegno.
In questo contesto, i giudici italiani (e in particolare, ma non esclusivamente, i giudici tutelari) sono chiamati, assieme ai familiari ma anche ai responsabili dei servizi sanitari e sociali direttamente impegnati nella cura e nella assistenza della persona (art. 406, 3° co., ma anche 410 e 413 c.c.), a «porsi accanto» al non autonomo, con l’obiettivo non già di un asettico accertamento di incapacità di agire collegato alla logica ghettizzante dell’infermità di mente con il corollario della mera sostituzione della persona in ogni atto giuridicamente rilevante; ma di realizzare uno strumento idoneo a sopperire per quanto possibile a tutte le carenze (impossibilità di provvedere ai propri interessi) della persona per qualsiasi ragione (per ogni infermità o menomazione) non autonoma (art. 404 c.c.), costruendo per lei (e per quanto possibile con lei) un progetto di sostegno più o meno limitato in dipendenza delle richieste e delle esigenze che l’accompagnano.
Tale traiettoria si inscrive in una prospettiva attraverso la quale si vuole «consentire ai soggetti non autosufficienti [di vivere in] condizioni esistenziali compatibili con la dignità della persona umana» (Corte cost., 22 giugno 1989, n. 346), il che giustifica la predisposizione da parte dello Stato di forme di assistenza per coloro che, affetti da infermità o da menomazione psichico-fisica, sono impossibilitati a provvedere adeguatamente ai propri interessi. Per altro verso, è sempre la tutela della dignità umana, intesa kantianamente come qualità spettante a tutti gli uomini quali esseri razionali dotati di autonomia della volontà e di libertà morale, che impone di valorizzare al massimo le possibilità di autodeterminazione delle persone: il che spiega la circostanza per cui la l. n. 6/2004, come già si è rilevato, sia improntata al principio secondo cui la capacità d’agire degli interessati deve subire la minore limitazione possibile (Sacco 2007, 2277).
4. Conclusioni minime
Come ha scritto una grande costituzionalista si deve credere «fermamente nella forza dei valori negati, una forza straordinaria: quando un valore viene negato rimane nell’ombra ma, inevitabilmente, nel tempo, riemerge. L’importante è tenerne viva la memoria; poi germina da solo. è un discorso importante, che serve anche a noi nell’oggi per reagire con fermezza quando vediamo proclamati arrogantemente “valori” antitetici a quelli della Costituzione: la ricchezza e non il lavoro, la guerra anziché la pace, la discriminazione piuttosto che l’eguale dignità della persona, l’approssimazione anziché la cultura. E, insieme, banalità, volgarità, nuovi egoismi e nostalgie autoritarie» (Carlassare 2006).
L’appello alla centralità del diritto, attraverso i valori espressi nell’amministrazione di sostegno, non deve suonare, quindi, come un mero vessillo di strumentalità; in gioco è proprio il riconoscimento di bisogni e conflitti sin’ora nascosti, o dimenticati o sottovalutati – la riscoperta rinnovata o definitiva dell’art. 3 Cost. – ossia un diritto parzialmente diverso per i diversi, un corpo di dettami che ambisca a rendere ognuno di essi meno disuguale: ciascuno portatore, comunque, di una quotidianità il meno lontana possibile rispetto ai margini di potenzialità esistenziale che quella specifica fragilità consente (Cendon 1990, 142).
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