Nato a Trieste, laureato in Scienze Politiche ad indirizzo politico-economico, inizia l’attività di Promotore Finanziario nel 1985 ed è iscritto all’Albo Unico sin dalla sua costituzione nel 1992.
Opera da sempre con sede a Trieste, anche se la sua clientela si espande nell’Italia settentrionale.
Partecipa da subito alla compagine azionaria di Copernico SIM S.p.A., Società indipendente di distribuzione di servizi finanziari per la gestione del risparmio, fondata nel 2000; nel 2003 è nominato membro del Consiglio di Amministrazione e dal maggio 2007 ricopre la carica di Vicepresidente.
QUI IL VIDEO DELL’INTERVENTO – (disponibile dal 15.4.2014)
L’ Articolo 372 c.c. ed i criteri di base per l’autorizzazione di un investimento.
L’articolo 372 del Codice civile limita l’intervento del Giudice Tutelare a poche e ristrette forme d’investimento per i capitali detenuti da un minore, salvo deroghe specifiche per motivi particolari. Titoli dello Stato, buoni postali fruttiferi, obbligazioni di istituti autorizzati al credito fondiario e immobili siti sul territorio.
Immagino che la volontà del legislatore sia stata quella di offrire le massime garanzie al soggetto da tutelare. Non c’è dubbio che la ratio dell’articolo in questione fosse quella di proteggere da qualsivoglia potenziale rischio nell’investimento ed orientata a criteri di massima prudenza.
La domanda, finalizzata a capire se questo obiettivo possa tutt’oggi essere perseguito, è legittima e pertinente. Investire un intero patrimonio mobiliare in titoli governativi italiani può definirsi la migliore soluzione in termini di rapporto rischio/rendimento ?
Ci sono perlomeno due aspetti che vanno affrontati in modo prioritario.
A. Il legislatore non poteva ipotizzare quale sarebbe stato l’immensa voragine provocata dal debito pubblico.
B. Il legislatore non poteva ipotizzare la globalizzazione finanziaria e la circolazione dei capitali.
A: Nel 1942 il debito pubblico ammontavo a 190,5 milioni di euro. A fine 2013 è stato superato il tetto dei 2.100.000 milioni di euro.
Per cui, arrotondando con l’accetta, è cresciuto di circa 11.000 volte.
Viceversa il potere d’acquisto di un euro nel 1942 è approssimativamente di 1.066 euro alla fine del 2012.
Quindi il debito pubblico è cresciuto in termini reali di circa 10 volte. Se lo guardiamo in rapporto al Pil, dal 40 % del dopoguerra siamo ormai al 130%. Contro una media dell’area euro di circa il 95%.
Per quanto la finanza comportamentale sia clemente nei confronti della tendenza a privilegiare il mercato domestico, così come nel pensare che lo tsunami riguardi sempre le spiagge lontane, proviamo a valutare il fenomeno in modo più asettico e cinico, insomma meno campanilistico. Possiamo definire prudenziale l’affidare la totalità dei propri risparmi ad un’azienda che fattura 100 e si indebita per 130 ? E che da dicembre del 2011 a fine 2013, in due anni quindi, ha aumentato il proprio debito di oltre 200 miliardi di euro ? Poco meno della metà di tutta la capitalizzazione delle aziende quotate alla Borsa Italiana (480 miliardi di euro) !!!
Il rating con cui il debito pubblico è classificato dalle principali agenzie internazionali è “BBB”. Significa qualità di investimento medio bassa e ci si trova appena due livelli sopra ai titoli speculativi.
Un ultimo elemento che va preso doverosamente in considerazione per valutare correttamente l’opportunità di tale scelta è il decreto legislativo del 7 dicembre 2012, con il quale è stabilito che, a partire dal 1° gennaio 2013, le nuove emissioni di titoli dello Stato aventi scadenza superiore ad un anno saranno soggette alle “clausole di azione collettiva” (CACs). Esse danno la possibilità ad uno stato che versa in condizione di crisi del debito sovrano di ricontrattare con i propri creditori ogni condizione del proprio debito.
Le CACs, introdotte a livello comunitario da una norma del Trattato di Istituzione del Meccanismo Europeo di Stabilità sottoscritto dai 17 paesi della zona Euro1, consentono a una maggioranza qualificata di investitori in obbligazioni di modificare i termini di pagamento di un titolo, in maniera giuridicamente vincolante per tutti i detentori del titolo stesso, in modo da facilitare una ristrutturazione ordinata del debito. Le clausole di azione collettiva, inserite in tutte le emissioni di titoli sovrani con durata iniziale superiore a un anno effettuate da paesi dell’area euro, presentano, in genere, un modello standardizzato allo scopo di garantire i medesimi effetti giuridici nell’ambito delle diverse giurisdizioni dell’area.
In altre parole una nazione che versi in situazioni finanziarie tali da rendere obbligatorio il ricorso al Fondo Salva Stati, può rinegoziare la propria esposizione debitoria, proponendo agli investitori la sostituzione con titoli di diversa tipologia (ad esempio con una scadenza più lontana), oppure di modificare gli importi delle cedole o di poter ridurre il capitale rimborsato. In sostanza proprio quelle clausole che hanno permesso alla Grecia di modificare le condizioni contrattuali dei bond statali.
B: Nel 1942 certamente non si parlava di investimenti all’estero. Appena nel 1988 i risparmiatori hanno potuto liberamente accedere ad altri mercati. Investire su un titolo governativo con rating Tripla A diventa una scelta più prudente per definizione. Le difficoltà diventano certamente maggiori. La scelta dei titoli in un ventaglio di opportunità enormemente più ampio, la gestione della volatilità del cambio e delle duration dei titoli impediscono quasi sempre il “fai da te” ed impongono l’ultilizzo di gestori professionali e di figure quali i consulenti che sappiano destreggiarsi nel selezionare quelli più capaci e che si pongano quali interfaccia tra il risparmiatore ed il mercato.
Non sfruttare le opportunità che si presentano al di fuori dei nostri confini significa, a mio avviso, rinunciare ad uno dei principi cardine per la sicurezza negli investimenti: la diversificazione. Perché avere un unico interlocutore, un’unica controparte quale debitore non è certamente un elemento di garanzia.
Vale la pena soffermarsi su un altro aspetto che spesso può risultare addirittura controproducente. Quello della legittimazione alla sottoscrizione delle obbligazioni emesse dagli istituti bancari. Qui ci troviamo di fronte ad un fenomeno tipicamente italiano. almeno a giudicare da un corposo studio redatto dalla Consob.
Infatti l’organo di sorveglianza ha ritenuto di dover intervenire per cercar di individuare le ragioni per le quali questo strumento risulta collocato nel nostro Paese in modo così massiccio: ben cento volte più che in Inghilterra e dieci volte più che in Spagna ed in Francia. Nel quaderno numero 67 del luglio 2010 la Consob specifica che solo il 9% delle obbligazioni in circolazione risultano liquide in quanto quotate in un mercato regolamentato. Il loro rating inoltre risulta generalmente inferiore a quello di un titolo dello Stato. A fronte di due minus di tale peso sembra ovvio che il risparmiatore dovrebbe pretendere un rendimento più elevato rispetto ad un titolo di Stato equipollente. Il paradosso purtroppo è che quasi sempre avviene esattamente il contrario. La Consob attribuisce le ragioni di tale irrazionalità certamente a difficoltà cognitive, che non consentono la chiara comprensione del rapporto rischio rendimento. Un peso ancor maggiore, quale causa di tale comportamento autolesionista, lo si attribuisce al principio della “familiarità”; per cui si tende a recepire come buono lo strumento offerto da un soggetto noto.
Non è difficile intuire che il privilegiare maggiormente l’interesse di chi colloca rispetto a quello di chi investe sia forse l’aspetto più degenerativo del nostro sistema finanziario. Il mercato italiano è prigioniero di un fantasma che si chiama “conflitto di interesse” e che non consente facilmente all’investitore di trovarsi di fronte ad un interlocutore libero di scegliere ciò che di meglio offre il mercato.
E’ vero che la direttiva europea MiFID (Market in financial instrument directive) lo tratta in modo centrale, ma a mio avviso, non risolve nella sua essenza il problema.
Si ha conflitto di interesse quando l’intermediario, nel presentare un servizio di investimento, ha un interesse proprio, o è portatore di un interesse di terzi, in contrasto con quello del cliente. La normativa stabilisce che, qualora esistano, non devono arrecare danno al cliente. Ciò si verifica molto frequentemente e quindi spesso il collocatore, nel momento in cui fa sottoscrivere prodotti propri, è in evidente conflitto di interessi. Ciò non significa necessariamente arrecare danno al cliente, ma nemmeno certamente metterlo nelle condizioni di sottoscrivere ciò che di meglio il mercato propone. Il fatto di renderlo consapevole di tale conflitto semplicemente facendogli firmare un modulo in cui si dichiara palesamente il “conflitto di interesse” (già l’esplicita terminologia dovrebbe far riflettere sul rapporto potenzialmente – e forse non solo potenzialmente- conflittuale in atto), manifesta la volontà di non ingannarlo, ma ancora una volta gli inibisce con tutta probabilità la possibilità di accedere ai migliori strumenti finanziari classificati per rapporto rischio/rendimento.
In sostanza la via di far gestire il conflitto a chi è portatore del conflitto stesso non può, a mio avviso, essere una soluzione credibile. Lo sarebbe nella misura in cui si riuscisse a separare la produzione dalla distribuzione, inibendo a chi si occupa dell’una la pratica dell’altra. Inoltre aumenterebbe certamente la competitività e l’efficienza del mercato.
Tali considerazioni sono propedeutiche a definire quali dovrebbero essere, sempre a mio modesto parere, i criteri di scelta nella valutazione di un investimento da parte del Giudice tutelare. E a tal proposito ci viene in soccorso proprio la suddetta normativa MiFID.
L’obiettivo di fondo della MiFID è quello della tutela degli investitori, attuata attraverso un approccio modulato sulle caratteristiche del cliente e sul tipo di servizio offerto.
La conoscenza del cliente, punto di partenza della MiFID, è ancora una volta, il prerequisito affinchè un intermediario finanziario possa operare secondo una logica di servizio e con una reale attenzione ai bisogni del cliente. A tal proposito, la novità dell’introduzione del servizio di “Consulenza in materia di investimenti”, sembra ritagliarsi perfettamente al caso nostro. Infatti la Consulenza potrà essere prestata solo dagli intermediari abilitati e muniti di specifica autorizzazione amministrativa. Ciò ovviamente riveste una fondamentale importanza in un’ottica di sicurezza e garanzie poiché il legislatore comunitario ha ritenuto di riservare l’esercizio di tale attività ad attori sottoposti a specifiche disposizioni in materia di autorizzazione e regole di condotta applicabili nell’esercizio dell’attività.
La Direttiva MiFID 2004/39/CE definisce esattamente l’attività di consulenza in materia d’investimenti come “la prestazione di raccomandazioni personalizzate ad un cliente, dietro sua richiesta o per iniziativa dell’impresa di investimento, riguardo ad una o più operazioni a strumenti finanziari” (cfr. art. 52 della Direttiva MiFID 2006/73/CE).
L’obiettivo quindi è di dare massimo risalto alla logica di “servizio al cliente” ed all’“analisi dei bisogni”. Emergono due concetti chiave che circoscrivono bene l’ambito della Consulenza di cui tratta la MiFID. La prima è che le raccomandazioni di acquisto devono essere assolutamente personalizzate, ovvero devono essere presentate come adatte per “quel” cliente e basate sulle considerazione delle sue caratteristiche. La seconda è che devono riferirsi ad un determinato strumento finanziario e non a qualcosa di generico.
In definitiva non credo che l’elemento discriminante per ottimizzare le scelte di portafoglio sia optare per una categoria di operatori piuttosto che un’altra ai quali delegare il servizio di consulenza. Ci sono istituti bancari e sim centrate sulla distribuzione di prodotti propri, che per ovvie ragioni non potranno essere le migliori proposte in ogni segmento di mercato e ci sono gli istituti bancari e le sim che possono spaziare tra le migliori società di gestione a livello internazionale senza dover per forza di cose privilegiare i prodotti di bandiera. Anche per i consulenti indipendenti vale lo stesso principio con il rischio però che si possano andar a duplicare le commissioni sommando a quelli della consulenza i costi dei prodotti.
Superamento del conflitto di interessi e scelte che possano ottimizzare la qualità dei portafogli sforzandosi di privilegiare l’eccellenza della gestione rispetto alla mediocrità. Questa è la sfida che tutti i risparmiatori dovrebbero cogliere. L’auspicio è che perlomeno da figure autorevoli quali i Giudici Tutelari inizi un’emancipazione di cui poi a cascata beneficerà tutto il mercato.