Gemma Brandi, psichiatra psicoanalista in Firenze, confida nel valore delle teorie che nascono dalle pratiche. Ha sempre svolto la professione sia negli istituti di pena, sia nella salute mentale territoriale, convinta della utilità di non perdere il contatto con le origini della psichiatria, che affondano appunto in carcere, e consapevole del rischio di un operare psichiatrico confinato unicamente nell’ambito della giustizia.
Fondatore e direttore della rivista Il reo e il folle, è attualmente responsabile della salute mentale pubblica di circa la metà di Firenze, incluse le due carceri per adulti cittadine. Per l’attività svolta a favore della popolazione detenuta è stata insignita del Premio della Fondazione Di Liegro 2013.
Per la raccolta di poesie In forma di dedica ha ricevuto nel 2007 il Premio dell’Istituto di Cultura di Napoli.
QUI IL VIDEO DELL’INTERVENTO – (disponibile dal 15.4.2014)
L’AdS: UNO STRUMENTO CHE HA RIVOLUZIONATO LA CASSETTA DEGLI ATTREZZI DELLA SALUTE MENTALE
Ho avuto fra le mani la bella intervista ad Alberta Basaglia, comparsa il giorno di San Valentino sulle pagine di un noto quotidiano. Alberta, la figlia di Franco Basaglia che la scienza aveva definito cieca, rende chiaro come per il fautore della Legge 180 la sfida fosse cominciata in casa, una sfida all’handicap di Alberta. Mi è capitato di presentare Franco Basaglia come l’inventore di una risposta non semplificata, quale il manicomio era, a un problema complesso, quale la sofferenza psichica è sempre stata. I problemi complessi non si affrontano in maniera semplicistica, esigono soluzioni composite e una dose non comune di trasgressione creativa. Alberta Basaglia aggiunge un ingrediente a questa lettura della svolta basagliana e della invenzione della salute mentale, che è poi un misto di armoniosa interdisciplinarità e audacia nello sfidare il nuovo che avanza tanto nei travestimenti della sofferenza che nelle conseguenti risposte. Ella sostiene che ci fosse, nello spirito del fondatore della 180, la capacità/volontà di rendere possibile l’impossibile e di andare oltre ogni separatezza, anche quella tra squilibrati e accorti. E sottolinea come la riforma non sia la favola bella che certa ideologia, soprattutto di sinistra, volle far sua, e neppure l’eccidio acritico che un’altra ideologia, soprattutto di destra, proclama. Dietro vi fu un movimento pieno di contraddizioni, e io aggiungo di peccati originali, che però servì a dimostrare che i folli potevano essere assistiti anche fuori del manicomio: venne attraversato il Rubicone e tratto il dado.
Chi ha dunque raccolto il testimone di Basaglia? Dubito che siano quelli che, quarant’anni dopo, non hanno smesso di ripetere i suoi aforismi. Certo potrebbero essere quanti, memori della spallata basagliana, sostengono la emancipazione del soggetto che soffre e/o fa soffrire, la sua “guarigione sociale”, sempre pronti a rinvenire risposte adatte al perenne trasformarsi della domanda. Tra questi i fautori della Legge sulla Amministrazione di sostegno [AdS] e i suoi utilizzatori, chi ha inventato il dispositivo e chi ha imparato a usarlo, tramandandone le virtù. E poiché il diritto e la cura appartengono alle arti di leonardesca memoria -distinguendosi in ciò dai mestieri: nella capacità di scrivere intorno alle proprie pratiche- occorre che lo strumento in sé e le sue applicazioni siano descritti e diventino materia di insegnamento, che ne sia depositata la teoria. Così anche i riottosi e gli accidiosi potranno prima o poi attingervi, e gli uomini di buona volontà delle generazioni a venire non soffriranno di una ignoranza di ritorno per non avere trovato maestri in grado di trasmettere la conoscenza del funzionamento di questo prezioso arnese, cosa che capita al povero muratore costretto a reinventare “l’archipendolo” dal niente.
Il mio intervento all’interno del Convegno che celebra, opportunamente e opportunamente a Trieste, il decennale dello sperato quanto insperato varo della Legge sulla AdS, tenta di mettersi al servizio dell’obiettivo appena enunciato, incastonando la norma in un avvertito bisogno di innovazione in salute mentale, descrivendone le scontate virtù nella risposta di aiuto alla sofferenza psichica e facendo cenno ai suggerimenti che la sua applicazione ha introdotto.
Per attualizzare i percorsi di salute mentale sono oggi necessarie alcune azioni: dei rinnovati piani formativi che assegnino valore all’ascolto del soggetto sofferente, fuori da ogni riduzionismo biologico che non fa meno male dei legacci manicomiali; la individuazione di percorsi terapeutici basati sulla gradazione monitorata dell’intervento, su filiere in cui trovi posto l’autonomia possibile dell’individuo, rinunciando alla presunzione di alzare o abbassare il filo a prescindere dalle speranze espresse dall’interessato e da un giudizio clinico non pregiudiziale; il riconoscimento della utilità del sistema delle coazioni benigne, di cui a buon diritto fa parte l’AdS insieme con:
_ il ricorso disciplinato ad Accertamenti e Trattamenti Sanitari Obbligatori [ASO e TSO];
_ le alternative a detenzione e internamento giudiziario del portatore di una sofferenza psichica autore di reato;
_ la sempre più raffinata, colta e coraggiosa “forensizzazione” dei servizi territoriali, nel senso di una diffusa conoscenza al loro interno degli strumenti giuridici che sono di aiuto alle persone delle quali si prendono cura;
_ la capacità di contenere i fenomeni del bullismo in ascesa, cui fa eco lo stalking in impennata;
_ attese invenzioni che consentano di restituire libertà ai figli a tal punto contesi nelle separazioni complesse da rendere dicibile l’indicibile: “meglio orfani che contesi”;
_ il progressivo ingresso della AdS in carcere, a favore dei reclusi incapaci che di frequente attraversano la detenzione senza che sia data risposta al bisogno di sostegno che li affligge.
La scelta di lavorare sia nei servizi territoriali che nella istituzione penitenziaria ha permesso, a chi scrive e ad altri, di cogliere per tempo la necessità di coltivare la coazione benigna che, nel sistema della salute, si inscrive nel solco della crescita di un “diritto mite” in ambito penale e partecipa dell’avanzare verso una sempre più agile azione interistituzionale. Intrecciare il sistema delle coazioni benigne è il compito di una salute mentale ormai liberata dal timore di semplificare del passato e quindi in grado di proiettarsi verso una integrazione né astratta, né ideologica.
Quando la coazione è benigna? Tutte le volte che punta a trattenere la caduta libera di qualcuno privo di bussola, immerso in una sorta di disorientamento esistenziale, incapace di sottrarsi alla perdita di sé. Tutte le volte che contribuisce a difendere, un soggetto debole, da aggressioni vuoi pure inconsapevoli auto e/o eterolesive. Tutte le volte che si configura come disposizione di alleggerimento della coazione stessa. Per conseguire questi risultati occorre che l’imposizione non sia gratuita, generica, crudele, autoreferenziata, bensì necessaria, individualizzata, umana, interdisciplinare. E’ in questa prospettiva che un ASO e un TSO non vanno a detrimento della cura; che ben monitorate misure alternative alla pena diventano lo strumento per restituire il reo a una smarrita competenza sociale; che disposizioni dell’autorità giudiziaria a tutela del minore conteso da genitori separati evitano che sia fatta strage della sua individualità; che una accusa portata con fermezza e benevolenza insieme può non ferire, bensì educare.
Ma non sono forse quelle elencate le caratteristiche della AdS? Ecco perché la norma è il rappresentante per antonomasia della coazione benigna, mentre la interdizione e la inabilitazione appartengono al sistema delle coazioni maligne: la seconda in quanto inadatta a tutelare un incapace, la prima perché esclude senza motivo capacità conservate, segue un profilo standard, mai modellato sul bisogno attuale, produce un umiliante annichilimento del soggetto debole, non offre sponde a un controllo reciproco -tra organi della cura e della assistenza e organi della giustizia, ad esempio- dell’esercizio della forza. Tali vetusti strumenti erano a tal punto dannosi che gli operatori della salute mentale preferivano, per non abbandonare il soggetto in balia della sua spinta autolesiva, trasformarsi nei suoi illegittimi amministratori di sostegno [ads] ante litteram. Per capire meglio come stessero le cose, basterebbe osservare che un quartiere di settantamila abitanti di Firenze contava nei primi mesi del 2004 diciannove tra interdetti (tredici) e inabilitati (sei) per problemi psichici, oggi diventati diciassette (dodici e cinque rispettivamente) a causa della morte di alcuni soggetti in gran parte provenienti dalla vecchia manicomializzazione. La stessa area urbana, in dieci anni ha accumulato settantacinque AdS ed è in attesa di decisioni su altre tre. Non solo, ha promosso, contro il parere del tutore del tempo, che si è per questo dimesso dal ruolo, un procedimento di revoca di una delle residue interdizioni, offrendo una consulenza tecnica di parte a costo zero all’interessato.
Quanto accade in un ambito territoriale -per qualsiasi norma, nella fattispecie questa- è davvero troppo condizionato dalla fede nel dispositivo da parte di chi ne ha la responsabilità organizzativa, se la situazione nei cinque quartieri di una città piccola, per quanto non “insignificante”, come Firenze, risulta oggi decisamente diversa. Tale disomogeneità testimonia di uno scarso accompagnamento della legge, che come altre disposizioni emancipatorie degli ultimi anni soffre della diffusa indifferenza che avvolge i problemi scottanti della società. Penso al DL 230/99, che decretò l’ingresso in carcere dei Servizi Sanitari Regionali, e al DPCM 1 Aprile 2008 che ne sanzionò, con nove anni di ritardo, l’applicazione senza investimenti. Tuttavia qualcosa si potrebbe e si dovrebbe fare per stimolare Regioni a Comuni a introdurre nei loro piani formativi obbligatori corsi sulla AdS per gli operatori sociosanitari, che sono estesamente all’oscuro degli obblighi che la norma pone loro e di conseguenza del rischio omissivo. Nel 2009 il Ministero della Salute propose ad alcune Regioni italiane, tra cui la Toscana, un piano di informazione diffusa sul territorio circa la legge. Capofila di quella iniziativa era il Veneto. La cosa si dissolse alla zitta dopo qualche viaggio a Roma e la presentazione di progetti utili e sostenibili, almeno da parte di Toscana ed Emilia-Romagna, che nessuno finanziò, pur trattandosi di un progetto con un budget tutt’altro che trascurabile.
L’assenza di una volontà statale di accompagnamento della applicazione della legge ha determinato anche una diffusa ignoranza circa le buone prassi nate a macchia di leopardo nel Paese, e anche sulle cattive prassi (per tutte, l’uso invalso in una grande città del Nord di nominare amministratori di sostegno i direttori generali delle locali aziende sanitarie), in altre parole la mancata edificazione di un dibattito sui punti di forza e sui punti deboli della AdS.
Uno dei punti deboli consiste, a mio parere, in quella insistenza sul costo zero della funzione di ads che ha riempito la bocca di coloro che ne sostenevano la beltà assoluta proprio in virtù di un altruismo che nell’immaginario viene a coincidere, troppo spesso, con il bene assoluto. Repetita non sempre iuvant. Quella insistenza, infatti, ha alimentato uno scontro tenace tra l’affermazione del valore volontaristico del ruolo di ads e il riconoscimento di un suo risvolto professionale. A ben guardare, poiché i casi di cui occuparsi non sono omogenei, servono tutte le possibili declinazioni dell’ufficio: non importa che, di volta in volta e in base alle opportunità della singola situazione, l’ads sia un familiare, un volontario, un professionista; conta soprattutto che si tratti di qualcuno disposto a collaborare con i servizi della cura e della assistenza e non incline a introdurre fattori di critica distruttiva in trattamenti che necessitano di composizione e soffrono di ogni forma di conflittualità non necessaria. Lo scontro tra prospettive dissimili ha contribuito, inoltre, a rallentare la costituzione di albi di ads distribuiti per territorio, un territorio che non dovrebbe, a parere di chi scrive, andare oltre quello di competenza del Tribunale: non si potrà pensare di svolgere il compito mantenendosi a una distanza talora assoluta dal soggetto! Mi sono imbattuta di recente, all’interno di una CTU, nel titolare di una curatela ultraventennale, di stanza a Milano, che chiedeva la interdizione del soggetto incapace, il quale risiede però a Firenze e non aveva mai incontrato il suo curatore in precedenza: il giudice ha optato per una AdS in luogo dell’interdizione -così i due si sono infine conosciuti- e per l’obbligo di nomina di un coadiutore dell’ads che abiti dove l’amministrato vive.
Eco della incuria istituzionale per la norma e della conseguente ignoranza, sono anche i travisamenti circa le proprie competenze di assistenti sociali e amministratori, con attribuzioni incongrue della funzione che si è chiamati a svolgere all’altra figura. Queste incertezze, talora opportunistiche, introducono di nuovo il fatidico fattore complicazione nella presa in carico di casi complessi, una attività che può essere solo composita e lucidamente concertata.
Va poi detto come sembri scontato che i familiari della persona incapace godano di un pregiudizio positivo quanto alla nomina di amministratori dei loro congiunti, in tal modo scotomizzando le occasionali difficoltà che tale scelta comporta. Sulla scorta del privilegio appena rilevato è accaduto e potrebbe accadere di nuovo che siano fatte nomine obiettivamente dannose all’interessato.
Inoltre, se l’AdS getta un ponte tra diritto e cura, occorre non trascurare la necessità di interventi giuridici tempestivi a salvaguardia del benessere psichico di una persona. I tempi della giustizia non sono quelli della salute. Si dovrebbero al contrario individuare procedure che rispettino l’urgenza sanitaria di certi provvedimenti, monitorandone l’appropriatezza che discende dalla capacità di uso della legge -di nuovo un richiamo a formazione e accompagnamento della norma.
Vorrei qui spezzare una lancia a favore della introduzione di una figura assai efficace in salute mentale, che abbiamo indicato come “educatore di sostegno”, una figura utile alla costruzione di un consenso vero da parte dell’amministrando. E’ molto difficile, infatti, che un soggetto relativamente incapace di agire e non compliant, accetti a cuor leggero che ad amministrare parte della sua vita sia uno sconosciuto, per benevolo che appaia. L’esperienza ha dimostrato come sia consigliabile affiancare all’interessato una figura educativa, esterna ai servizi, ma da questi finanziata, capace di stabilire con lui/lei una relazione e quindi in grado di ottenerne la fiducia. Questi finirà per essere indicato, dalla persona incapace al giudice, come suo amministratore, in tal modo superando due ostacoli: l’opposizione dell’amministrato alla amministrazione e il suo costo che potrà rientrare all’interno della più ampia funzione di sostegno terapeutico, retribuibile dai servizi sociosanitari. E se a un simile aggiustamento si opponesse la regola che impone di non scegliere l’ads tra coloro che si occupano di assistere e curare il soggetto? Va sottolineato, intanto, che si parla di figure non istituzionali, laddove i servizi restano i titolari di cura e assistenza. E comunque il gioco vale la candela, se porta con sé la magnifica calamità di mettere in condizione di chiedere autonomamente aiuto chi ne ha bisogno, ma ne è inconsapevole.