I dodici personaggi che si presentano sulla scena richiamano alla mia mente il complesso procedere per giungere ad una decisione. O meglio, il percorso che io credo sia necessario per giungere ad una decisione giusta. Non potrei, neppure facendo mio questo metodo, giudicare, non ne ho, in un certo senso, la lucida freddezza, comunque, necessaria.
Il dodicesimo giurato, l’unico che non è fermamente convinto della colpevolezza, insinua il dubbio. Il punto di partenza del giudizio: solo se si dubita si ha l’animo libero per la ricerca della verità. Mai egli afferma che l’imputato è innocente. E neppure colpevole. Solleva solo un ragionevole dubbio. Anzi all’inizio, solo un dubbio che, corroborato con frammenti di fatti, concomitanze, lievi discrepanze, si manifesta via via sempre più ragionevole. Dettato dalla ragione, appunto, da un ragionamento logico, privo di sentimentalismi, anche se sorretto dalla consapevolezza che dalla decisione dipende la vita di un uomo, anzi di un ragazzo.
Consapevolezza del ruolo, dell’importanza del ruolo, consapevolezza delle conseguenze della decisione, consentono di <>, conferire valore al giudizio che si sta per dare. E più alta è la posta in gioco, (e quando non lo è se è messa in discussione la vita, o un bene della vita), più è necessaria tale percezione di sé. Il dubbio, al fine, nasce spontaneo dalla consapevolezza delle conseguenze della decisione.
<<Nell’accertamento della causalità, l’indagine del p.m. prima e l’attività istruttoria del giudice poi, devono essere dirette non soltanto ad ottenere la conferma dell’ipotesi formulata, ma devono riguardare la conferma, o meno, dell’esistenza di fattori causali alternativi, che possano costituire elementi di smentita della ricostruzione ipotizzata. Ciò in quanto l’impossibilità di escludere, al di là di ogni ragionevole dubbio, i fattori causali alternativi, non consente di ritenere processualmente certo il rapporto di causalità. Con la precisazione, peraltro, che se sono conosciuti tutti gli ipotizzabili decorsi causali e tutti sono sempre riconducibili alla condotta del soggetto, il rapporto di causalità può comunque ritenersi ugualmente accertato. E con l’ulteriore precisazione che, a fronte di un’ipotesi alternativa nella ricostruzione della causalità, che sia plausibile (cioè, seppur ritenuta improbabile, non consista in una ricostruzione immotivata e di natura meramente congetturale), non riconducibile stavolta alla condotta del soggetto, è comunque consentito al giudice di escludere tale ipotesi non solo in base a una dichiarata e motivata affidabilità di una delle ipotesi formulate, ma tenendo anche conto delle evidenze probatorie esistenti nel processo che consentano di negare, in termini di elevata credibilità razionale, l’ipotesi alternativa: ciò che consente di uscire dalle secche della valutazione probabilistica e di pervenire a una conclusione che supera il limite costituito dal ragionevole dubbio >> (Cass. pen. 6 novembre 2007, n. 840, Guida al diritto 2008, 7 52).
Il Presidente della giuria accetta, immediatamente, di prendere in considerazione il punto di vista del 12^ giurato, perché incarna il senso comune, il buon senso. Qualità che, da un primo sommario esame, potrebbe sembrare qualità ottima di un giurato. Ma non è così: il buon senso appiattisce il giudizio, lo semplifica, è padre del buonismo non di una buona e, perciò, giusta decisione.
<< Il giusto processo non è diretto allo scopo di sfociare in una decisione di mero rito, ma di rendere una pronuncia di merito stabilendo chi ha torto e chi ha ragione, in base a una lettura costituzionalmente orientata della disciplina della materia, che tenga conto delle argomentazioni emergenti dalle intervenute modifiche legislative e delle prospettazioni svolte di recente dalla dottrina>> (Cass. SSUU, 22 febbraio 2007, n. 4109, Guida al diritto 2007, 13 94).
Tutti gli altri giurati sono fermamente convinti della colpevolezza dell’imputato, perché ognuno, immerso nella quotidianità, legato dai pregiudizi, impedito in blocchi psicologici, non lascia spazio al dubbio, si limita a leggere l’apparenza, la superficialità delle prove, che prove non sono, ma solo errata ricostruzione di fatti inesistenti.
Il primo dei giurati che cambia il verdetto è l’anziano, non per saggezza, anche se è saggio ed equilibrato, ma per ammirazione, ammirazione del coraggio del 12^ giurato, il coraggio di chi <>, nonostante tutto, sta dalla parte del torto apparente, dell’ultimo, del diseredato, dell’escluso, del povero, dell’emarginato, di colui che <>. Questo coraggio merita attenzione. E’ la giustizia che deve stare dalla parte del debole e non del potere, per il principio stesso di giustizia e di terziarità dell’ordine giudiziario che emerge dal rispetto del coraggio.
Il più debole dei giurati è l’operaio, colui che non ha mezzi culturali per comprendere e per questo motivo si ferma alla tangibilità del teorema accusatorio, alla più semplice accettazione di quello che appare vero.
Il ruolo del magistrato comporta anche tale difficile ricerca. Per la vastità delle ipotesi, dei casi, del materiale umano che deve vagliare egli deve avere una forte base culturale. Peritum peritorum egli è. Deve essere in grado di calarsi anche nelle questioni tecniche ma da giudice. Disponibilità allo studio, alla ricerca, alla valutazione <> (Corte assise Milano, 30 maggio 200, Giur. merito 2007, 6 1746).
Molto più dannoso per la ricerca della verità è il pregiudizio, incarnato dalla figura violenta e odiosa del proprietario di garage. Razzista oltre misura, auspica la morte del diverso, chiunque esso sia, perché, comunque e in ogni modo, capace di ogni nefandezza, non importa se innocente per il fatto addebitato, ma in astratto colpevole.
Il pregiudizio, espresso così radicalmente, alligna nel profondo e non si manifesta sempre così eclatante e riconoscibile. Rimane segreto, forse non ammesso dallo stesso giudicante, forse limitato ad un leggero tocco alla bilancia per farla pendere dal lato voluto, quasi inconsciamente. E’ difficile difendersi dal pregiudizio ed è, ancor più difficile, difendere la sentenza dal pregiudizio.
Il sistema ha individuato due mezzi: il rito e la motivazione. Le regole del rito sono per il giudice, egli deve applicarle scrupolosamente e farle rispettare. Il procedere sui binari prefissati mantiene libero il pensiero, meglio lo costringe in un cammino incanalato, impedendo di strabordare in favoritismi o semplici giustificazione di errori o debolezze.
Nonostante questo, la giurisprudenza non considera fondamentale l’obbligo di astensione, il cui mancato rispetto imporrebbe la nullità della sentenza. <> (Cassazione civile , sez. II, 29 marzo 2007, n. 7702, Giust. civ. Mass. 2007, 3). Così enuncia la S.C.
La libertà dai preconcetti e posizioni precostruite deve trasparire dalla motivazione che illustra il procedere, il susseguirsi di pensieri, considerazioni, valutazioni, sino a giungere al verdetto. La ricerca della norma astratta, la astratta interpretazione che scende e diventa norma del caso concreto, in un andirivieni puntuale, soddisfacente, esauriente. Non ha importanza la mole del lavoro svolto, il numero delle pagine prodotte, sono sufficienti poche parole, purché facciano comprendere perché: il perché della colpevolezza o dell’innocenza, o della violazione del diritto.
E lì, tra le righe della motivazione, che possono apparire i fantasmi del pregiudizio, delle intolleranze, delle discriminazioni, in quelle parole sottaciute, nei passaggi logici mancanti, nella frasi di stile. <<L’obbligo di motivazione del decreto del p.m., con il quale si dispone l’esecuzione delle operazioni di intercettazione mediante impianti diversi da quelli in dotazione all’ufficio della procura della Repubblica (art. 268, comma 3, c.p.p.), non è assolto con il semplice riferimento alla «insufficienza» o «inidoneità» di questi ultimi (che ripete solo il conclusivo giudizio racchiuso nella formula legislativa), ma esso richiede la specificazione delle ragioni di tale carenza, che in concreto depongono per la ritenuta «insufficienza» o «inidoneità».>> (Cassazione penale , sez. V, 20 novembre 2007, n. 47092, Guida al diritto 2008, 5 76). La sentenza citata è, in un certo qual modo, un’eccezione, normalmente la S.C., in primis nelle sentenze civili, accetta motivazioni stringate, costruite per mero riferimento alle risultanze della CTU, formate da un esclusivo accenno alla giurisprudenza di legittimità, come, se con il tempo e il numero crescente di sentenze, non si abbia più il tempo di scrivere le motivazioni, a cui ci aveva abituato una certa attenta e colta giurisprudenza. Il verdetto è quello che conta. La giurisprudenza di legittimità dimentica che la motivazione è lo specchio del processo interno al giudice che aiuta a capire, se ha giudicato basandosi su preconcetti e pregiudizi.
Ma ancor più pericolosa del pregiudizio, per una giusta sentenza, è la personalizzazione del caso. Chi è stato appena derubato con che serenità giudicherà il ladro penetrato in casa d’altri? E non è necessario giungere a tale situazione estrema, perché i sentimenti non possono assopirsi definitivamente con il trascorrere del tempo all’evento traumatico. Il giudice non è un automa. E’ per questo, anche per questo, che essere giudice è un compito difficile, estremamente difficile, e doloroso … a volte doloroso.
Il padre vede se stesso nel padre ucciso e colpevole il figlio, come suo figlio che è fuggito dal dominio della sua violenza.
Molte polemiche hanno innescato l’ipotetica introduzione di test attitudinali nelle selezioni degli aspiranti giudici. Sbagliato? Rischio di una scelta di potere?
Sinceramente crediamo poco all’introduzione di simili mezzi. Piuttosto, la riforma che ha abolito il Pretore lascia alquanto perplessi. La pretura, soprattutto nei piccoli centri, per chi l’ha conosciuta, come utente o come giurista era un banco di prova, di formazione, di esperienza. Un rito di passaggio.
Il confronto quotidiano e diretto con la realtà, l’esercizio di più funzioni, costringeva ad una professionalità a tutto tondo, che non favoriva la specializzazione esagerata, ma costruiva un’impalcatura culturale ed umana.
L’impiegato non osa, non osa avere un’opinione per paura, per paura delle reazione degli altri.
Le decisioni richiedono coraggio: il coraggio di esporsi a propria volta al giudizio (delle parti, dell’opinione pubblica, della magistratura superiore), il coraggio di sbagliare.
E’ anche andare contro corrente, decidere secondo una interpretazione nuova, dando risposta a istanze sino a quel momento disattese. Tale “coraggio” è in qualche modo “tarpato” dal principio di nomofilachia.
Questo significa ancora più rigidità dei principi del “precedente” di common law, vincolare alla decisione altrui, non avere la “legge del caso concreto”, ma una sorta di interpretazione “autentica”.
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Il giurato più irritante è il tifoso che ha fretta di decidere per non poter andare alla partita. Non ha altro interesse, non lo tocca né la gravità delle conseguenze, – una decisione sulla vita dell’imputato -, né le argomentazioni semplici o complesse dei suoi compagni. Ha semplicemente fretta. Spesso si contesta, si discute della “lentezza della giustizia”, ma celerità non vuol dire frettolosa superficialità e, men che mai, “sommarietà” del giudizio, non vuol dire omettere una fase del giudizio, non ascoltare in interrogatorio libero le parti, non approfondire un esame testimoniale, ridurre o limitare i tempi di una discussione dibattimentale od orale ex art. 282 c.p.c.. La giustizia deve trovare il giusto equilibrio tra i tempi e le pause. Il tempo ben speso è quello dedicato alla trattazione e all’esame del processo. Il tempo intercorrente tra un incombente e l’altro deve essere contenuto nei limiti della ragionevolezza.
<< La Corte Europea dei diritti dell’uomo, ai cui principi il giudice nazionale deve tendenzialmente uniformarsi nella determinazione della durata ragionevole del procedimento, ha in linea di massima stimato tale durata in anni tre per quanto riguarda il giudizio di primo grado ed in anni due per quello di secondo grado; da questi parametri il giudice può discostarsi riconoscendo una durata ragionevole maggiore o minore in considerazione della maggiore o minore complessità del procedimento>> (Cass., 3 aprile 2008, n. 8521, D&G, nota Vecchi).
Il pubblicitario è estremamente superficiale, vorrebbe ridurre tutto alla misura usata nel suo mondo. Quante volte nel mondo giudiziario dobbiamo assistere a giudizi ed attività di avvocati, consulenti e collaboratori superficiali e inadeguate. Quante volte.
Ma la giustizia merita questa superficialità e pressapochezza?
<>. Ai non credenti, si rivolge, invece, la lezione negativa dell’intera esperienza storica. Forse, potremmo dire così, che la giustizia è per l’appunto un andare cercando nelle vicende concrete della vita e non il trovare un concetto, un’idea astratta,. Giusto tra noi è chi cerca giustizia.>> (Zagrebelsky G. 2003, Einaudi, pag. 40).
Il commercialista è colto e preparato, sa far funzionare un ufficio, sa come gestire le situazioni difficili. E’ molto razionale e con la sua razionalità cerca di penetrare nelle convinzioni, o meglio, nei dubbi del 12^ giurato per scardinarli … invano. La razionalità da sola non è sufficiente, quando si giudicano le azioni umane, i sentimenti, le condotte, le posizioni soggettive, il dolo o la colpa, i danni, la sofferenza, la famiglia, la razionalità da sola non è sufficiente. Ci vuole il cuore. E al fine la ragione deve cedere il passo a fronte della prova, dell’esperimento pratico che è suggerito dal cuore, che non crede, che non riesce a comprendere dove è la falla, ma percepisc,e per istinto, che la falla nel ragionamento esiste. E la ragione cede il passo di fronte alla prova sperimentale dei fatti, alla rappresentazione simulata di ciò che è accaduto, l’esperimento che consente di vedere se, così come la ragione pensa che sia accaduto, è possibile che sia accaduto.
Una volta i giudici si recavano sul posto per verificare di persona lo stato dei luoghi, per accertarsi, vedere e comprendere. Anche nel rito del lavoro le prove testimoniali potevano essere assunto sul luogo di lavoro. Un tempo non molto lontano. Come poteva il giudice accertare se la mansione di un operaio era quella prevista dalla declaratoria contrattuale se non <> il macchinario, la sua complessità, le manovre necessarie a farlo funzionare, i problemi tecnici lasciati all’iniziativa e all’esperienza dell’addetto?
<<L’art. 421 c.p.c., nello stabilire che il giudice dispone, su istanza di parte l’accesso sul luogo di lavoro, purché necessario al fine dell’accertamento dei fatti, non solo esclude che tale accesso sia obbligatorio per il fatto che la parte ne ha fatto istanza, ma limita la stessa discrezionalità del giudice il quale può disporre l’accesso solo se lo ritiene necessario e non semplicemente utile>> (Cass., 11 agosto 1982, n. 4508, GCM, 1982, fasc. 8). Una simile interpretazione limitativa, se pur ragionevole, ha indotto i giudici di merito a sottovalutare lo strumento offerto loro, (a loro giudici e non alle parti), di meglio comprendere e perciò meglio decidere.
<<L’attività del teste che accompagna la polizia giudiziaria sui luoghi dove si è consumato un reato fa parte dell’attività informativo-descrittiva propria della testimonianza, costituendo integrazione della descrizione orale, mentre, perché possa aversi esperimento giudiziale è invece necessaria la ricostruzione, nel senso di ripetizione, di un determinato fatto per verificare se esso possa essere avvenuto in un determinato modo>> (Cass. 24 maggio 2000, n. 7430, CP, 2001, 2728).
Ricordo un caso di lesioni. Doloroso. Era un nipote ad aver sferrato un pugno alla nonna, fratturandole il naso. I due gruppi familiari erano divisi e in lotta tra loro, così che la nonna poteva contare solo sulla testimonianza di un figlio, mentre il nipote su quello della madre, del padre e della sorella. Il ragazzo si difendeva asserendo che lo zio avrebbe, involontariamente, urtato il naso della nonna con il gomito, indietreggiando e così ferendola, mentre egli non aveva fatto nulla.
Il cuore mi diceva che la tesi del ragazzo non era credibile, ma le prove sembravano dargli ragione. Chiesi alla cliente e a suo figlio di simulare innanzi a me, la sgomitata. Era del tutto impossibile che fosse avvenuto così come raccontava il ragazzo
L’indomani chiesi, insistetti, contestai, insomma convinsi il giudice a provare l’esperimento e il giudice si lasciò convincere. La sentenza fu di condanna.
L’ebreo è estremamente educato, educato e gentile, al punto tale da irritare chi educato non è. Bella qualità l’educazione e le belle maniere, quando non sono solo l’espressione di ipocrisia, ma profondamente inculcate. Sono sintomo di rispetto, di rispetto per se stessi e per l’interlocutore. Nelle aule di giustizia dovrebbe regnare l’educazione e le belle maniere, quella forma che è sostanza, che mette in mostra il rispetto per l’avversario, per il giudice, per il testimone, per il perito, e soprattutto per la giustizia. L’eliminazione di ogni fronzolo, di ogni frase costruita, l’abbandonare l’abitudine a vestirsi secondo l’etichetta, ormai è largamente diffusa e ritenuta un segno di progresso, di libertà, di esclusione, appunto, dell’ipocrisia che si ferma alla forma. Ma è proprio così? Se si maschera da libertà la trasandatezza, la grettezza, il cattivo gusto, la mancanza, insomma, di rispetto per il luogo non si rende un buon servigio alla giustizia. Dove i modi non sono educati e rispettosi, dove l’aggressività viene confusa con la determinazione nel difendere le proprie tesi, o con l’arroganza del proprio ruolo, non regnano le condizioni per una giusta decisione. E come potrebbero gli operatori del diritto guadagnarsi la stima dei cittadini, di coloro che cozzano, controvoglia, con il mondo dei tribunali?
L’art. 88 del c.p.c. recita che <>. Il rito impone una condotta corretta disponendo che le parti debbano mantenere una condotta leale e proba. La violazione dei doveri di lealtà e probità processuale può concretizzarsi in tutte le azioni dirette a turbare la piena e regolare applicazione del principio contraddittorio <> (T.A.R. Campania Napoli, sez. III, 14 settembre 2006, n. 8107, FA TAR, 2006, 9 3020), e perché no? si può concretizzare anche nella mancanza di educazione e di buon gusto, di aggressività, in altre parole si possono giustificare solo condotte che <> (Cass. 12 febbraio 2008, n. 3277, Guida al diritto, 2008, 16 97).
L’ultimo giurato si rifiuta di analizzare con la dovuta attenzione il caso che è chiamato a decidere perché è troppo doloroso per lui, significa rievocare la sua infanzia, le sue precedenti condizioni di cui non fa fiero, le sue umili origini, il luogo ove ha trascorso tanti anni e che lo hanno segnato nel suo cuore e possono ferire l’immagine che gli altri hanno di lui. Ha un rifiuto, non vuole riconoscere l’incongruenza delle risultanze probatorie, perché, così facendo, dovrebbe ammettere, innanzi a tutti, che egli sa perfettamente come si usa una un’arma da taglio e, nello specifico, un coltello a serramanico. Ma la rappresentazione degli eventi simulata al fine di comprendere ciò che è accaduto, le sciocchezze pronunciate con protervia o con asserita razionalità, lo turbano e lo innervosiscono, al punto tale, che egli non può far altro che esplodere e urlare l’assurdità di ciò che hanno riferito periti e testi nel processo. Il racconto dei fatti che dovrebbe condurre alla condanna non è credibile, non è coerente con il tipo di arma, con le dimensioni dell’aggressore e della vittima. Altro deve essere accaduto, come egli stesso dimostra, con il gesto esperto di chi ha usato il coltello per uccidere.
E’ l’epilogo pian, piano tutte le barriere psicologiche crollano e il verdetto finale viene emesso: innocente!